Per eliminarne i sedimenti (fònd) della fermentazione, si travasava il vino più volte (tramudèr al vén dapp cl a buié intal tinàz): per San Martino l’11 novembre, Natale e Pasqua, possibilmente in una giornata serena e non ventosa e in periodo di luna calante. Si utilizzavano un tubo di gomma (bigàt), un imbuto a cannello sottile e talvolta veri e propri filtri. Conclusa la prima fermentazione, si provvedeva a fissare su botti e damigiane tappi di legno o di sughero e a effettuare periodici rabbocchi del loro contenuto. Fino a primavera inoltrata si era soliti bere i “secondi vini”. In concomitanza con l’inizio dei lavori più gravosi, si consumava il vino schietto conservato in botti e damigiane e portato in tavola e ai luoghi di lavoro con brocche (mzatta), fiaschi (zucàtt, zócca, zucòunaa seconda delle dimensioni o fiasch, fiascòn), bottiglioni (butigliòn), bottiglie di zucca (zócca dal pelgrén) e di terracotta (fiasch ed teracòta), fiasconi impagliati (fiascòn) o piccole botticelle (budgénna, barilén).
Solo una piccola parte del vino era imbottigliata e riservata a festività e particolari ricorrenze. L’uso della macchina imbottigliatrice (màchina da imbutiglièr) si diffuse nelle famiglie intorno alla metà del ’900. La bottiglia, una volta riempita, veniva chiusa con un tappo di sughero (stupài, óvar), spesso lubrificato con olio di oliva e inserito tramite una macchina turabottiglie (màchina da stupèr al butégli).