La coltivazione e l'industria domestica della canapa

Prella
foto Archivio Museo della civiltà contadina

La canapa è stata a lungo coltivata per il suo lungo stelo (4-5 metri), costituito da due parti: una interna rigida, il canapule e una esterna, il tiglio, da cui, attraverso opportune lavorazioni, si otteneva la fibra tessile impiegata per la fabbricazione di tele e cordami.

 

Nella coltivazione della pianta, documentata nel territorio bolognese dall'agronomo Pier de' Crescenzi, le tecniche produttive si modificarono tra il XIV e il XVII secolo, per fissarsi nei modi rimasti tradizionali fino alla metà dell'Ottocento. Nelle campagne bolognesi la coltura canapicola fu fondamentale e caratteristica: precisi riferimenti sono presenti nelle opere letterarie di Giulio Cesare Croce (San Giovanni in Persiceto 1550 - Bologna 1609), nelle tele del Guercino (Cento 1591 - Bologna 1666), nell'opera agronomica, "Economia del Cittadino in villa", del bolognese Vincenzo Tanara, che nel 1664 scrive: "nella Canepa, conoscesi una sforzata industria de gli Agricoltori Bolognesi, per la quale saranno sempre d'eterna, e universal gloria, perché con immensa fatica, e spesa, si riduce questa pianta ad una esatta, e singolar perfettione [...]".

 

Alla diffusione della coltura canapicola nelle campagne si affiancò lo sviluppo del settore manifatturiero cittadino (tra i toponimi bolognesi resta traccia dell'attività svolta dagli addetti alla trasformazione della fibra greggia in pettinati in Via dei Gargiolari; a Bologna c'erano anche una Piazzola e una Via della Canepa, contigui a Palazzo Re Enzo, cancellati dagli sventramenti del 1910-15, in cui si faceva "mercato di Lino, Gargiolo e Canape gregge") e anche nelle campagne, prima nei luoghi "murati" di pianura: Budrio, Castel San Pietro, Medicina, quindi anche in altri centri come Bazzano, Martignone, Castelfranco Emilia.

 
 
Affondamento canapa
foto Archivio Museo della civiltà contadina

Nel 1874-79 la produzione di canapa nel Bolognese raggiunse i 33 milioni di libbre (119.000 quintali ca.) e alla metà dell'Ottocento più dei due terzi del prodotto veniva esportato in altre province italiane oppure all'estero. Le numerose e gravose manipolazioni necessarie per la produzione risultavano tuttavia faticosissime per i coloni, tanto che l'agronomo toscano Cosimo Ridolfi nel 1859 scrive: "Una popolazione che non fosse assuefatta a codesta fatica, a codesti incomodi non vi si assoggetterebbe di buona voglia e si considererebbe parificata nel lavoro agli schiavi: ma dove queste colture sono abituali da tempo immemorabile, benché siano gravosissime al contadino che vi s'affatica d'intorno, si praticano senza lamento e tornano utilissime al proprietario che riceve il prodotto senza spesa dal suo mezzaiuolo".

 

La produzione, che pur con fasi alterne, si mantenne alta per tutto l'Ottocento, cominciò a declinare nel corso del Novecento per effetto della diminuzione della richiesta di prodotto (introduzione e ampliamento della navigazione a vapore, concorrenza esercitata da altre fibre naturali meno costose, come il cotone, la iuta, l'abacà o canapa di Manila), fino a scomparire dopo gli anni '50, a causa di molteplici fattori concorrenti: affermazione delle fibre sintetiche (rayon, nylon), basso grado di meccanizzazione della coltura con alto impiego di manodopera, concorrenza di colture più remunerative come la barbabietola da zucchero o i frutteti specializzati e altre colture ortive.

 

Tracce ancor oggi visibili di questa coltura si colgono nelle strutture poderali delle campagne bolognesi: la casella della canapa, alta e ampia costruzione adibita un tempo alla lavorazione e al deposito della canapa, oggi deposito di attrezzi e macchine e il macero, un tempo vasca utilizzata per il processo di separazione del tiglio dal canapule mediante macerazione in acqua, oggi riserva idrica per le aziende in cui è ancora presente.