L'aratro, la stalla e il prato

L'aratro, la stalla e il prato

Fino alla seconda metà dell’Ottocento era in uso un aratro, il piò di legno, dotato di un orecchio piatto (as dal piò) incapace di rovesciare completamente le zolle. Numerosi studi ed esperimenti di agronomi e artigiani consentirono di sostituirlo con un piò in ferro provvisto di un orecchio elicoidale. Si deve a un falegname di Budrio, Annibale Gardini, la svolta tecnologica decisiva per la diffusione del nuovo strumento. Il suo piò permetteva il rovesciamento completo delle zolle senza opporre troppa resistenza al tiro animale. Migliaia di esemplari, costruiti anche da molti imitatori, si diffusero dove aveva dominato per secoli l’antico detto di Catone: “Non cambiare il tuo vomero”. Ancora alla metà del Novecento lo si poteva vedere all’opera nei poderi in cui la trazione a motore non aveva sostituito quella animale.

 

Per assicurarsi un tiro adeguato all’aratura dei campi e il letame necessario per la concimazione, i contadini dovevano allevare nelle stalle 2 o 3 paia di buoi, 2 paia di manzi e 2 di vitelli, e almeno 1 paio di vacche necessarie per generare i nuovi capi di bestiame e per completare il tiro in occasione di alcuni lavori. La scelta colturale che privilegiava cereali e canapa causava una cronica mancanza di foraggio per il mantenimento del bestiame. Si utilizzavano quindi il fieno del prato naturale, di stradelli agricoli sterrati - cavedagne - e delle scoline, la paglia, la foglia degli olmi e le erbe infestanti estirpate dalle coltivazioni. Il prato, di dimensioni modeste, era posto in genere in prossimità del maceratoio e veniva falciato una sola volta ai primi di giugno. Nel corso dell’Ottocento l’introduzione dell’avvicendamento della coltivazione dell’erba medica, (spagna), del trifoglio (tarfói) e della lupinella (lupinèla) allargò sensibilmente la base foraggera dei poderi, ma non eliminò completamente l’uso dei foraggi tradizionali.